1. Forza e violenza
La mia angolazione sulla violenza è la ricerca del suo superamento, almeno una riduzione che tenda a zero. Ciò si impone come necessario, nel mondo minacciato nella sua consistenza dalla violenza. Sebbene abbia ormai un patrimonio di teoria, di esperienze storiche, di tecniche di resistenza e di lotta, la cultura nonviolenta non è una ricetta, ma una ricerca in una linea asintotica.
Una prima chiarificazione utile è nel distinguere violenza da forza, anche se nel linguaggio corrente le due idee sono spesso confuse e le due parole sono usate come sinonimi. A volte si usa il termine “forza” per dire violenza in modo pudico, evitando questo termine crudo.
La forza (fisica, morale, della volontà) è una qualità della vita e dell’azione. La cessazione di ogni forza è cessazione della vita. La forza può essere costruttiva, mentre la violenza designa un’azione eminentemente distruttiva. La forza può essere usata come strumento di violenza, ma in sé non si identifica con la violenza. Un genitore deve usare anche atti di forza per correggere ed educare i figli, ma conosce bene la divaricazione, in questo caso evidente, tra forza e violenza.
Questa distinzione fonda – deve fondare – la differenza tra polizia, forze dell’ordine, e esercito, guerra. Quando agisce correttamente nella legalità, la polizia contiene e impedisce la violenza, pur disponendo di armi leggere per i casi estremi. In guerra, invece, si deve fare più violenza del nemico per vincere. La differenza tra ridurre la violenza o accrescerla è decisiva per umanizzare le situazioni di conflitto.
La distinzione è importante anche per orientarci nel giudizio sulle “missioni di pace” internazionali e militari degli anni recenti, giustificate come “ingerenza umanitaria”, o “responsabilità di proteggere” le popolazioni civili oppresse da dittature o gravi conflitti interni. La motivazione nobile copre spesso crudi interessi geopolitici. A parte ciò, si tratta di missioni “di pace” con mezzi di guerra, con frequenti “effetti collaterali”, cioè vittime civili. Si dispiegano le tecnologie militari più avanzate, magari affiancate da forme di soccorso e solidarietà, non so quanto credibili per le popolazioni locali interessate.
La insufficiente distinzione, nella politica statale corrente, tra forza e violenza, tra polizia ed esercito, deriva probabilmente dal fatto che gli stati moderni, anche democratizzati, sono dall’origine sposati alla guerra, alle sue strutture e alla sua mentalità. Di conseguenza, è rimasta inattuata quella norma dello Statuto dell’ONU (art. 47, pure ancora condizionato dal privilegio dei vincitori) che delinea una polizia internazionale, nel nome della comunità dei popoli, e non degli stati o coalizioni più potenti. Le classi politiche statali non arrivano a comprendere, volere, favorire le esperienze sorte dal basso di “corpi civili di pace”, di origine gandhiana, per interventi di solidarietà umana, mediazione, riconciliazione nei conflitti.
2. Violenza diretta, strutturale, culturale
Violenza-violazione può essere un atto, un fatto, o anche una struttura stabilita, e infine una ideologia, una teoria delle relazioni umane, o addirittura una concezione del vivere. Il titolo di un manuale sull’arte di vivere, nell’edicola di una stazione, diceva: «O si domina o si è dominati».
Nella peace research, intesa come ricerca della nonviolenza, è ormai classica la distinzione proposta da Johan Galtung tra violenza diretta o fisica, violenza strutturale, violenza culturale. La sensibilità e l’informazione più corrente, e il pacifismo, vedono e reagiscono alla violenza diretta. Ma la ricerca approfondita denuncia le cause di questa nelle strutture (giuridiche, sociali, economiche) che incarnano una violenza statica, consolidata, accettata o subita, legittimata. E ancora, l’analisi vede nelle culture, tradizioni, ideologie che giustificano o esaltano relazioni di violenta disparità, una causa più profonda di quelle stesse strutture violente.
La violenza strutturale normalizza singoli atti violenti, perciò la reazione di ripugnanza è più debole, o addirittura assente. Una visione culturale che incorpori la violenza nella natura delle cose giustifica e fa accettare le strutture violente. Per Galtung le macroculture, o culture profonde presenti nell’umanità, si qualificano più o meno violente, più o meno libere da violenza, secondo quali teorie della pace, del conflitto, dello sviluppo le caratterizzano.
È evidente che la ricerca e la costruzione della pace giusta, per superare la violenza esistente, non è sufficiente che parta dall’ultimo effetto, opponendosi alla guerra, come fa il pacifismo, ma deve risalire alla violenza strutturale e soprattutto culturale, come fa la cultura della nonviolenza, proponendo e costruendo alternative a questi livelli. Sono queste precedenti violenze che causano e giustificano la violenza materiale, bellica.
Un’altra analisi, che fu proposta da Helder Camara e ripresa da Ernesto Balducci, vedeva la violenza originaria nell’oppressione, seguita dalla ribellione violenta, quindi dalla repressione. Tre violenze deprecabili, ma non uguali.
Sulla Violenza. Dignità violata e inviolabile