Intendo argomentare sulla nozione di violenza – di cui lo Stato detiene il monopolio, non semplicemente de facto ma come consapevole accettazione collettiva, secondo quanto sottolinea Max Weber – sotto tre aspetti: i) Gli effetti indiretti della violenza, illustrando il nesso tra identità e appartenenza e le sue conseguenze estreme quali sono segnalate negli scritti di Amartya Sen; ii) Il governo della violenza, ossia le restrizioni etiche che si devono imporre al modo di combattere la guerra nell’analisi di Thomas Nagel in Mortal Questions; iii) Il ruolo emancipativo o accettabile e forse inevitabile della violenza, nelle considerazioni di Michael Walzer sull’etica dell’emergenza, sulla guerra giusta e sull’ intervento umanitario, là dove vengono commessi crimini contro l’umanità o pulizia etnica su larga scala, pur all’interno di confini statuali riconosciuti. Si tratta dell’idea, difesa particolarmente da Peter Singer in One World, di una “responsabilità di proteggere” da parte della comunità internazionale e dei suoi organi, ovvero di un nuovo diritto cosmopolitico che muti drasticamente il modello Westfalia nelle relazioni fra gli Stati sovrani.
i) Il primo versante critico delle osservazioni di Sen è ovviamente rivolto contro la tesi dello “scontro di civiltà”, sostenuta da Huntington. L’idea di una appartenenza unica, oltre a essere uno schema interpretativo povero perché rigido normativamente e sordo empiricamente verso la frammentazione dei modi di vita sperimentati, disconosce l’identità funzionale – molteplice, mutevole e di ruolo – propria delle nostre civiltà complesse, e la riduce a statica identità comunitaria, una sorta di ripetizione rituale dell’io nella tradizione consolidata che miniaturizza l’individuo. La credenza implicita nel potere predominante di una classificazione lineare, afferma Sen in Identity and Violence, in quanto confina le persone in categorie predefinite, può infiammare il mondo intero e istigare scontri tra gruppi. Una visione del mondo basata su un singolo criterio di suddivisione non confligge, infatti, soltanto «con la buona vecchia convinzione che noi esseri umani siamo più o meno uguali, ma anche con l’idea, meno dibattuta e molto più plausibile, che siamo diversamente diversi». Il mondo viene spesso visto come se fosse un insieme di religioni, civiltà o culture, ignorando le altre identità che gli individui possiedono e giudicano importanti, legate alla classe sociale, al genere, alla professione, alla lingua, alla scienza, alla morale e alla politica. Insomma, come sosteneva Oscar Wilde, la «maggior parte della gente è altra gente». Questo, sottolinea Sen, ci insegna anche un’altra cosa importante; ossia che la capacità di confondere, propria della efficacia semplificatoria della tesi sullo «scontro di civiltà», finisce per intrappolare non soltanto coloro che sono disposti al conflitto – una minoranza in verità, gli sciovinisti occidentali e i fondamentalisti islamici – ma anche la ben più vasta schiera di coloro che sono favorevoli al «dialogo fra le civiltà», e così restano imprigionati nello stesso schema concettuale che contestano.
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Le forme dissonanti della violenza