È certamente un indizio significativo che dei maggiori sofisti ci sia pervenuto solo un numero assai limitato di frammenti, per numero e qualità assai inferiore alle testimonianze che li riguardano. Si tratta in parte di un destino comune ai cosiddetti “presocratici” – come li classificano anche Diels e Kranz; ma in realtà sul piano biografico questa collocazione è impropria: almeno Gorgia, grazie alla sua lunghissima vita (485-375 circa) molto sottolineata dalle fonti, è anche un “post-socratico”, contemporaneo e a quanto si dice anche lettore di Platone, tanto da aver apprezzato ironicamente il dialogo intitolato a suo nome.
In parte questa scarsa conservazione è certamente anche il risultato di un atteggiamento di disistima, se non proprio di una damnatio memoriae, ereditata dalla polemica socratico-platonica e continuato nei secoli, in parte dell’idea connessa e diffusa che i sofisti fossero essenzialmente retori e che il loro pensiero fosse semplicemente distruttivo e non degno di attenta considerazione. Non è un caso dunque che di Protagora DK riporti solo undici numeri di frammenti non considerati spuri o imitativi, tutti di dimensione molto limitata, a fronte di ventinove testimonianze, mentre di Gorgia le testimonianze siano trentacinque e i frammenti accettati ventisette, di cui solo tre di una certa dimensione: quello tratto dal trattato usualmente definito Peri tou me ontos (Intorno al non essere o della natura), l’Encomio di Elena e l’Apologia di Palamede. Queste ultime due opere, anche se in alcuni luoghi corrotte e testualmente problematiche, sono le sole che possiamo considerare integrali. Di nuovo, non è un caso che esse siano in genere considerate puri esercizi retorici, poco significative sul piano del pensiero. Del resto lo stesso Gorgia, alla fine dell’Encomio definisce il suo lavoro «Elenes men enkomion, emon dé paignion», «per Elena encomio, per me gioco dialettico» – un termine su cui vale la pena di riflettere. E anche il Palamede, pur essendo costruito in maniera notevolmente diversa, condivide lo stesso carattere.
In effetti la fortuna di questi testi corrisponde a tale impostazione: celebri fin dall’antichità come “giochi” retorici, sono stati per lo più apprezzati come testimonianza di virtuosismo oratorio, anche per il linguaggio raffinato e l’abbondanza sfrenata di figure retoriche dell’espressione, allitterazioni, ripetizioni, omologismi, chiasmi lessicali e naturalmente in certa misura anche di metafore particolarmente interessanti. Tutta una tradizione di storia della retorica classica attribuisce a Gorgia l’invenzione di un nutrito numero di figure, se non di tutte, e lo definisce in sostanza il fondatore della disciplina. Proprio per il loro valore di modello formale ci sono probabilmente stati conservati questi due testi, con il risultato però di farne apparire in genere poco rilevante il contenuto, soprattutto dal punto di vista filosofico, come se un “gioco dialettico” fosse per definizione insignificante. La conoscenza del destino filosofico e scientifico novecentesco della metafora del gioco applicato al linguaggio, da Saussure a Wittgenstein a Lévi Strauss, dovrebbe peraltro renderci lettori più attenti di questi “passatempi”. Per superare una lettura distratta o sbrigativa di questi testi, può essere opportuno l’uso dello strumento semiotico. È quello che questo articolo si propone di fare rispetto all’Encomio di Elena.
“Il logos è un potente signore”