Strepsiade, contadino perseguitato dai creditori del figlio Fidippide il quale ha dilapidato molta ricchezza alle corse dei cavalli, ha un’idea: frequentare la scuola di Socrate, filosofo che sa utilizzare ogni sofisma per insegnare ai discepoli come prevalere in qualsiasi scontro dialettico, anche nei casi in cui il torto è palese.
Grazie a questi insegnamenti spera di poter resistere ad ogni pretesa e di poter vincere qualsiasi causa che la muta degli strozzini dovesse intentare.
Il primo giorno di scuola, Strepsiade assapora gli assaggi del programma didattico: dal metodo migliore per misurare il salto della pulce al come individuare la causa del ronzio della zanzara, e così via. Tuttavia quando il filosofo Socrate in persona cerca di coinvolgerlo in ragionamenti sempre più complessi, allo stupore si aggiunge lo scoramento, e gli resta solo la speranza che sia il figlio a poter apprendere i segreti della parola che sa convincere, della parola che non lascia spazio alla replica. E sarà così. Fidippide inizia a frequentare il pensatoio e si dimostra quanto mai ricettivo all’uso del cavillo e naturalmente predisposto all’utilizzo dell’argomento capzioso; il tutto a scapito dei sempre più disarmati creditori ma anche del padre, che oltre a dover subire i modi violenti del figlio, dovrà soccombere di fronte al suo ragionare:
Strepsiade: Certo, lo facevo per te, per il tuo bene.
Fidippide: Dimmi padre: non è giusto che anch’io Ti voglia bene allo stesso modo, e ti picchi, visto che picchiare vuol dire voler bene?>>
Questa è la frammentaria sintesi della commedia con la quale Aristofane sbeffeggia le nuove filosofie e svela il proprio disprezzo per il pensiero critico che allontana i giovani dai sani principi affidandoli all’impalpabile ed inaffidabile leggerezza delle “Nuvole” che danno il titolo all’opera.
Trattasi certamente di un libello aspro che svela l’animo esacerbato di un conservatore inorridito dalla cultura democratica emergente, ma anche una esemplificazione efficace degli intrecci che, evidentemente da sempre, legano la speculazione sofista al suo utilizzo nella pratica della giurisdizione ad opera delle parti o dei tecnici che le supportano.
Poco importa la logica di partito che animava il testo o il retroterra sociologico nel quale si contrappongono la civiltà contadina legata alle leggi antiche ed la nuova polis ateniese animata da impulsi laici. Rileva in questa sede notare che già duemilacinquecento anni fa si poteva temere o auspicare che l’uso della parola potesse irrobustire il discorso fino a renderlo vincente, che la forza dell’argomento potesse sbriciolare le ragioni del contraddittore. E ciò a dispetto della realtà e del binomio vero-giusto, destinati a svaporare di fronte ad una pratica argomentativa idonea a sostituirli con principi mobili e relativi.
Proprio da questa connessione, che sembra subordinare il giudizio più all’efficacia della pratica sofista che alla verità, si delinea il luogo comune secondo cui ai tecnici delle aule del Tribunale viene attribuito il ruolo esclusivo di cacciatori di vittoria, vissuti come orfani di etica e principi.
Si affaccia e si consolida un parallelismo che sembra infrangibile: se ai sofisti si assegna la qualifica di “prostituti della cultura”, diventa consequenziale definire gli avvocati “prostituti degli interessi“.
Sofisti e Avvocati, II