1. Nessuno
C’è un piccolo giallo nel Prologo del Sofista. Non è molto chiaro perché Platone citi Omero. Le citazioni omeriche addotte paiono anzi singolarmente mal scelte, dal momento che – cercando di cogliere in qualche modo l’essenza del filosofo, cui sono riferite – sembrano spingerla in inquietante vicinanza a quella del sofista.
Teodoro, il matematico, ha appena introdotto lo straniero di Elea, che – com’egli dice – è un vero filosofo. Per tutta risposta, Socrate cita Omero. Il riferimento, come attestano i commentatori, è ai libri IX e XVII dell’Odissea, che narrano – rispettivamente – l’avventura del Ciclope e il ritorno di Odisseo a casa sotto le vesti di un mendicante. Come lo straniero di Elea, così anche Odisseo è straniero/ospite in casa propria, e così Odisseo e i compagni sono ospiti/stranieri nell’antro di Polifemo. In entrambi i casi, quello del Ciclope e quello dei Proci, lo straniero è uno che non ha nome, qualcuno di non identificato.
Quale collegamento sussiste tra il filosofo, il sofista, e l’anonimato? Il filosofo e il sofista sembrano trovare in Odisseo (che potrebbe essere il politico) una matrice comune. Ma procediamo con ordine.
Nel suo primo intervento, Socrate tira in ballo la questione del nascondimento:
«Ma non è che tu, Teodoro, ci porti, senza rendertene conto, non uno straniero, ma un qualche dio, come dice Omero? Egli afferma che altri dèi, sì, si accompagnano agli uomini che hanno un giusto rispetto per gli altri, in particolare soprattutto il dio dell’ospitalità, e vengono per osservare la tracotanza e il rispetto che gli uomini hanno di fronte alla legge» (Soph. 216 a 5- 216 b 4).
Lo straniero, che si presenta all’improvviso, non si sa bene chi è, e questa condizione di anonimato gli permette di osservare indisturbato, di vedere senza essere visto. Il riferimento sembra essere qui appunto a Od. IX 270-271, dove lo straniero Odisseo presenta Zeus appunto come dio «xeinios», dunque ospitale e protettore degli ospiti/degli stranieri. Ma il libro IX è a tutti noto per il “nome” di Odisseo:
«Ciclope, domandi il mio nome glorioso? Ma certo, lo dirò; e tu dammi il dono ospitale come hai promesso. Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano madre e padre e tutti quanti i compagni» (Od. IX, 364-367).
Forse che dunque per Platone il filosofo è Nessuno? Sì, ma anche il sofista lo è. Il Prologo del Sofista – come ci pare di poter dire, anticipando – presenta dunque il filosofo e il sofista come due modi differenti di essere Nessuno. Il che non resta senza conseguenze decisive sulla natura stessa del Bene, il vero oggetto della filosofia: il quale dovrà contenere o implicare anch’esso una qualche forma di anonimato.
La tesi è così impegnativa, che Socrate e Teodoro si affrettano subito a limitarne la portata, facendo marcia indietro e impegnandosi in una denegazione. Il paragone con il dio dell’ospitalità andrebbe – come ora viene precisato – preso in un qualche sospetto. Un tal dio anonimo sarebbe – afferma Socrate – uno che ha il gusto della confutazione. Ma un simile dio confutatore potrebbe assomigliare a un erista, a uno di quegli «attaccabrighe impegnati nel confronto oratorio con l’unico scopo di imporsi sui propri interlocutori». Invece, come rileva Teodoro, lo straniero «è più misurato di coloro che si accaniscono nelle dispute» (Soph. 216 b 8).
Come si può osservare, il paragone omerico ha sortito due effetti, tra loro connessi. Ha introdotto la questione del sofista (dell’erista), rivelandosi un paragone pericoloso; ha – per conseguenza – indotto gli interlocutori a strategie limitative: con le parole di Teodoro, non si tratta di un dio, ma – come tutti i filosofi – di un «uomo divino» (Soph. 216 b 9): è questa la definizione giusta per lo Straniero di Elea.
Immediatamente dopo, la scena si ripete. Di nuovo Socrate introduce un paragone omerico, di nuovo esso sembra sviante, di nuovo vien messa in campo una strategia limitativa:
«[SOCR.] Però, c’è questo rischio: non è molto più facile, per così dire, distinguere questo genere, che non quello della divinità. Infatti, questi uomini “vanno attorno per le città” assumendo sembianze “diversissime”, a causa dell’ignoranza altrui, e non i filosofi finti, ma quelli autentici, ispezionando dall’alto la vita degli uomini di quaggiù; e ad alcuni sembrano uomini di nessun valore, ad altri uomini dotati di ogni valore. E talora si presentano come politici, talora come sofisti, e qualche volta si dà il caso che in alcuni suscitino l’impressione di essere del tutto pazzi» (Soph. 216 c 2 – 216 d 2).
La questione è dunque come si possa distinguere il (vero) filosofo, impresa non facile e soggetta a un rischio di errore. La citazione omerica, questa volta addotta per disteso, è tratta dal libro XVII:
«“Spesso gli dèi, simili a ospiti d’altre contrade, sotto tutte le forme girano per la città, per vedere i soprusi o i retti costumi degli uomini”» (Od. XVII, 485-487).
Neppure in Omero, come si potrebbe osservare, queste parole sembrano sottratte del tutto a una struttura di presa di distanza, dal momento che a pronunciarle – contro Antínoo – è uno «dei giovani alteri» (Od. XVII, 482). Ma non è questo il punto decisivo. A prescindere dal carattere sospetto che sempre hanno in Platone le citazioni di Omero, nel caso specifico esse sembrano condurre fuori strada. Tutto lo sforzo va nel senso della identificazione del filosofo (e del sofista), mentre le citazioni attestano un’inidentificabilità. Questa contraddizione spinge prima Teodoro e poi Socrate appunto a precisazioni limitative, che nel complesso sembrano ridurre le citazioni omeriche a un ruolo esornativo, a una sorta di didascalia apposta a spiegare la descrizione “Straniero [di Elea]”. Strategia limitativa è appunto anche quella di Socrate, che imputa l’inidentificabilità all’«ignoranza» dei molti, sicché il filosofo si lascerebbe identificare perfettamente, ma solo da chi ha occhi per vedere (come, del resto, è il caso anche di Odisseo).
A favore di questa interpretazione, nel complesso appunto limitativa, sta però soprattutto il fatto che la citazione in questione era già ricorsa nella Repubblica, dove Platone si riprometteva appunto di cacciare i poeti dalla città:
«Non venga allora, caro amico, un qualche poeta a narrarci che “gli dèi, simili a ospiti d’altre contrade, sotto tutte le forme girano per la città”» (Resp. 381 d 1-4).
Infatti, ciascun dio, essendo perfetto, «resta sempre semplicemente nella propria forma» (Resp. 381 c 9). L’enantiomorfosi, il divieto di metamorfosi, è la divisa del platonismo. Nessuna forma di flânerie può essere ammessa.
Non è molto chiaro perché una citazione così sfortunata debba essere riammessa in questa sede. Forse Platone vuol sottolineare in questo modo appunto la differenza tra gli dèi e i filosofi. Una cosa, comunque, sembra chiara: quel che nella Repubblica ha un valore posizionale negativo, qui può venire riabilitato solo in senso strumentale. Il Sofista è, nel suo complesso, una scena di riconoscimento (del sofista e del filosofo), che – come tale – non può che iniziare da una situazione di confusione o anonimato iniziale, di per sé provvisoria e destinata a venire presto superata. Del resto, come appunto dice Socrate, i filosofi assumono molte forme, tra loro diversissime, solo «a causa dell’ignoranza altrui» (Soph. 216 c 5).
La lettura che propongo va nell’opposta direzione: le citazioni omeriche introducono, secondo quanto propongo, un dislivello interno al testo. Che, nell’atto stesso in cui pone la questione dell’identificabilità del filosofo e del sofista, e in cui introduce anzi la questione dell’inafferrabilità come marca caratteristica del sofista (la cui pretesa sarà sempre di essere tutto e il contrario di tutto, sottraendosi a un’identità), opera un geniale, spiazzante riporto di anonimato nel cuore stesso dell’identità del filosofo, e dunque – per estensione – nel cuore stesso del Bene. Riporto che in nessun luogo è più visibile che non nella locuzione “Straniero [di Elea]”. Come Odisseo, il vero filosofo – colui che si tratta appunto di identificare – non ha un nome.
Vi sarebbe dunque, accanto all’uso negativo della citazione nella Repubblica, un uso strumentale di essa nel Sofista (la confusione è il punto di partenza, non certo quello di arrivo della ricerca), che però sarebbe al contempo – nell’interpretazione che propongo – un uso affermativo e positivo: l’anonimato dice qui qualcosa di positivo, e quindi di definitivo, sulla natura del filosofo (e quindi del Bene) in quanto tale.
La riabilitazione della citazione di Omero nel Sofista spiega perché il protagonista sia, appunto, uno Straniero. C’è qualcosa di Odisseo che assomiglia al vero filosofo, e non solo per l’ignoranza dei molti. Non è infatti per ignoranza che l’identità dello Straniero non viene svelata. Ché anzi, come si potrebbe supporre, il vantaggio letterario della sostituzione di Socrate con lo Straniero come figura leader del dialogo è appunto questo: che Socrate ha un nome, lo Straniero no.
La citazione omerica esprime l’intreccio di una certa fluidità e di una certa costanza: la costanza di Penelope, di Odisseo stesso, del cane Argo; e la fluidità delle maschere, perché Ulisse è in incognito, come appunto gli dèi che si fingono ospiti di altre contrade.
Ma fluidità con costanza, non diventa appunto – in Platone – la definizione del Bene? Ch’è Uno e Diade insieme? E per quanto attiene al filosofo: il «rischio», di cui parla Socrate, è solo epistemologico, o è anche ontologico? Questo non significa, evidentemente, che il filosofo non si lasci distinguere in quanto tale, come non significa che il Bene non sia limite, o passaggio. Il punto è un altro: se cioè qualcosa della fluidità sofistica, dell’anonimato sofistico, della neutralità sofistica, non riguardi, sia pur con segno diverso e in forme rovesciate, anche il filosofo; se il Bene non sia – sotto un certo aspetto – esso stesso una chora.
Forse le traiettorie del filosofo e del sofista formano un chiasmo: il sofista, a furia di sottrarsi – come un pesce – alla definizione, si lascia infine pescare: deposte tutte le maschere, è fin troppo semplice afferrarlo; il filosofo invece, a furia di definizioni, e a misura che la sua forma s’illustra e diviene evidente, gira paradossalmente nell’a-poria, nell’informe e senza forma, come intuisce Plotino.
Tanto il filosofo è qualcuno, che alla fine è Nessuno; tanto il sofista è nessuno, che alla fine è Qualcuno.
Gemelli diversi. Sulla piccola differenza tra il sofista e il filosofo