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Attualità dei sofisti?

Num°04 SOPHISTS

Dopo tanti secoli di critica radicale, sembra che la sofistica abbia finalmente cominciato a godere di grande considerazione, non soltanto come fenomeno storico ma anche – e soprattutto – nella sua dimensione teoretica. Da Nietzsche a Rorty, da Popper ai tanti cultori odierni della retorica, non sono pochi i pensatori che hanno ritenuto di trovare nei sofisti antichi degli autorevoli predecessori nella battaglia contro la filosofia classica. Non stupisce dunque di leggere che la nostra epoca è quella della terza sofistica, dove, in assenza di fondamenti certi, non resta che il potere creatore del linguaggio – un potere per cui nulla è impossibile. Davvero l’uscita dalla modernità sembra equivalere a un ritorno alla Grecia preclassica, che aveva visto brillare la stella di questi sofisti!

Negli ultimi tempi, però, sembra che la situazione si stia modificando ancora una volta in senso negativo. Da più parti infatti, contro la stagione del post-modernismo e del relativismo indiscriminato, si registra un moto di reazione e di distacco critico: è la continua polemica contro il relativismo, che proprio i sofisti avrebbero introdotto nell’agenda filosofica; o è la rinascita del nuovo realismo di cui tanto si è parlato negli ultimi tempi contro il costruzionismo indiscriminato, di chi afferma che non solo non esiste giustizia al di fuori di quello che noi riteniamo giusto: neppure la montagna esiste senza che noi la nominiamo o pensiamo. Si potrebbe dunque pensare che con questa stagione si stia chiudendo anche la parentesi positiva della sofistica. Ma forse è proprio grazie a questo movimento di reazione che meglio si può cogliere il senso della riflessione di molti sofisti e l’interesse che può avere per noi. O almeno così cercherò di mostrare.

Semplificando, l’accusa che da più parti viene mossa all’indirizzo dei corifei del post-moderno sembra essere quella di annullare la realtà riducendo tutto a costruzione umana. Ma se è così, il problema tocca solo tangenzialmente i sofisti. Perché è vero che anche i sofisti esaltarono il potere creatore dell’uomo, soprattutto in relazione al linguaggio. Ma la motivazione di fondo della loro riflessione sembra essere un’altra: non il disinteresse per la realtà, ma la consapevolezza della sua complessità, la presa d’atto del rapporto problematico che separa gli uomini e la realtà, i soggetti e gli oggetti: è qui la grande novità teorica rispetto tanto al mondo della speculazione presocratica quanto a quello della cultura tradizionale dei poeti. Proclamando che l’uomo è misura di tutte le cose (cfr. DK 80 B 1), Protagora non intende certo assumere una posizione da idealista avant la lettre per dire che tutto dipende da noi. Il problema è piuttosto quello di mostrare che la realtà che ci circonda è qualcosa di sfuggente, che non esiste un rapporto dato tra noi e le cose: che non è vero che il logos è comune a tutti (vale a dire a noi e alle cose che ci circondano) (Eraclito, DK 22 B 1), e che non è vero che essere e pensare sono la stessa cosa (Parmenide, DK 28 B 3). La realtà esiste, ma non è dotata di un senso univoco e tanto meno di un valore assoluto. Come ha giustamente osservato Enzo Paci, i sofisti sono i filosofi di una realtà ambigua.

Il loro pensiero dunque non si costruisce in opposizione alla realtà, ma a partire dalla realtà – una realtà che però è considerata come qualcosa che manca di stabilità e unità, come un fenomeno molteplice e in perenne trasformazione, senza poter individuare in essa (o al di sopra o al di sotto) una struttura unitaria di senso. In altre parole, quello che viene messo in crisi non è l’esistenza della realtà, ma la possibilità di conoscerla al di fuori di ciò che appare, di ciò che si manifesta a ciascuno di noi: la realtà è l’insieme di fenomeni che costituisce le nostre esperienze, e non invece quella chimera di cui sono in cerca metafisici e scienziati al di sotto della superficie delle apparenze conflittuali. Per Nietzsche questo era il merito principale dei sofisti, il loro realismo. E se l’interpretazione di Nietzsche è quella più corretta, non è forse sbagliato ritrovare in una sorta di “realismo critico” la cifra dell’attività di pensiero dei sofisti: non la negazione della realtà e neppure la sua subordinazione al potere creatore dell’uomo, bensì la consapevolezza della sua problematicità: la realtà è qualcosa di complesso e ambiguo; per quanto essa sia priva di stabilità e uniformità, essa è nondimeno qualcosa da cui non possiamo prescindere ma con cui dobbiamo costruire delle relazioni di senso.

Del resto, prima di Nietzsche c’era già Platone e la famosa discussione del Teeteto, sul vento che per me è caldo e per te è freddo: fin da Platone è insomma chiaro che i sofisti non affermano che non esiste la realtà senza di me; essi sostengono piuttosto che la realtà si frantuma nella relazione con i soggetti percipienti. Tanti sono i soggetti tante sono le realtà. Per capire davvero il senso dell’intuizione protagorea bisognerebbe però continuare nella lettura del dialogo platonico. Se così si facesse, si verificherebbe che questa idea a Protagora non serve per discutere di vento e montagne, per stabilire se e in che modo la loro esistenza, e il loro essere provvisti di una certa proprietà, dipende da noi. L’interesse di un sofista come Protagora è eminentemente pratico: come è relativo il caldo e il freddo del vento, così sono relativi il buono e il giusto, il brutto e l’ingiusto. Ed è su questo che si gioca la vera partita: non si tratta di compiere un’indagine astratta e teorica, bensì di costruire un rapporto vantaggioso con la realtà che ci circonda, con quella realtà, concreta, immediata e sempre sfuggente, che sta di fronte a me. E qui cominciano i problemi, perché la molteplicità della realtà, la sua ambiguità, ci priva del punto di riferimento più scontato: dato che una realtà unitaria non esiste, dato che i rapporti che possiamo costruire con essa sono sempre particolari e instabili, il rischio è quello di una divergenza permanente – o meglio, perché qui non si tratta più del vento, ma di valori come la giustizia e il bene, il rischio è quello di un conflitto permanente tra tutti i soggetti.

In altre parole, sintetizzando al massimo, si potrebbe dire che il realismo critico dei sofisti muove da un problema e si fonda su una constatazione di fatto: il problema è la molteplicità ambigua della realtà; e la constatazione di fatto è che non ci sono vie o scorciatoie per superare questa molteplicità ambigua. Il che significa che non ci sono soluzioni date: le soluzioni gli uomini se le devono trovare da soli, sempre che ne siano capaci.

Chiarire le premesse di partenza serve anche a chiarire il senso dell’operato dei sofisti, tanto quello decostruttivo quanto quello costruttivo. Il primo aspetto è noto e sta alla base dell’accusa, tra tutte la più scontata, che per tutta l’antichità è stata mossa contro i sofisti, quella di essere cattivi maestri. Sollevando instancabilmente dubbi sulla legittimità dei fondamenti su cui una comunità crede di poggiare i sofisti si espongono all’accusa di volere sovvertire tutto. Ma è evidente che questo non è l’obiettivo. Semplicemente, i sofisti pongono un problema: quale è la legittimità di una tradizione il cui valore dipende solo dal fatto che così si è sempre fatto? Quale è la legittimità di leggi che si vogliono imposte per volere divino (si pensi ad esempio alle leggi non scritte a cui si appella Antigone nell’Antigone di Sofocle)? E quale la verità delle presunte costanti naturali che si vorrebbero applicare anche al mondo degli uomini? Alla base si ritrova sempre qualcosa di assoluto – una tradizione insindacabile, un volere divino incontrovertibile, l’inevitabilità della natura… ma appunto: è davvero così? Tutti gli uomini tendono a presentare la propria posizione come quella meglio fondata, come la sola davvero fondata. Ma gli uomini poi divergono: e allora a chi credere? La lezione di questa divergenza non è piuttosto che non esistono fondamenti assoluti? Che sia dunque meglio stabilire insieme i principi che permetteranno agli uomini di stare insieme? La critica dei sofisti è dunque solo in apparenza distruttiva, perché punta in realtà in direzione opposta: a costruire una soluzione condivisa che trae la sua forza e legittimità proprio nella consapevolezza della sua provvisorietà e mancanza di fondamento.

(En passant, si chiarisce di conseguenza anche la ragione dell’interesse dei sofisti per la retorica e il linguaggio. Contrariamente alle accuse di Platone nel Fedro (272e-273a), l’obiettivo dei sofisti non è persuadere, se persuadere significa soltanto prevalere nelle discussioni, disinteressandosi della verità. I sofisti di per sé non disprezzano la verità. Solo che non sempre la verità s’impone nella sua evidenza. Ed è di questo che si interessano i sofisti: della capacità di muoversi in contesti in cui la verità è opaca. Perché è questa la condizione in cui più spesso gli uomini si trovano ad operare (Gorgia, Encomio di Elena, § 11 = DK 82 B 11,11). Dunque non si tratta di disinteresse per la verità, ma piuttosto della consapevolezza che la verità è problematica. Il che comporta la necessità di affinare tecniche per discutere, indagare, interrogarsi in un contesto in cui nulla è più garantito.)

Tra tutte la testimonianza forse più eloquente è un passo apparentemente banale che si legge nella Vita di Pericle di Plutarco:

«Durante una gara di pentathlon un tale colpì involontariamente con il giavellotto Epitimo figlio di Farsalio e lo uccise. [Pericle] trascorse l’intera giornata insieme a Protagora discutendo chi, secondo il ragionamento più corretto, bisognasse considerare responsabile della disgrazia, se il giavellotto, o piuttosto chi lo aveva lanciato, o gli arbitri» (DK 80 A 10).

Questa testimonianza apparentemente banale costituisce un bell’esempio del modo di ragionare dei sofisti.

Attualità dei sofisti?

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